Scacco matto della FCC: Washington mette i colossi cinesi nella “Covered List”. E ora che succede ai droni?
Washington ha fatto la sua mossa. E non è una mossa di quelle simboliche.
Con una decisione che era nell’aria da mesi, ma che ora diventa realtà, la Federal Communications Commission ha inserito nella cosiddetta Covered List i sistemi di droni di produzione estera e i loro componenti più sensibili. Tradotto: per i grandi produttori cinesi, il mercato americano si fa improvvisamente molto più stretto.
Il 22 dicembre 2025 rischia di diventare una data spartiacque per tutto il settore della robotica aerea commerciale. Non solo negli Stati Uniti, ma anche fuori.
Non è solo politica, è una scelta industriale (e di sicurezza)
A Washington la raccontano come una questione di sicurezza nazionale. E, almeno sulla carta, il ragionamento fila. Secondo fonti governative, i report del Pentagono avrebbero messo nero su bianco un rischio considerato ormai inaccettabile: flotte di droni commerciali che, in caso di crisi o conflitto, potrebbero essere disattivate o addirittura controllate da remoto.
Uno scenario che spiega perché l’inserimento nella Covered List venga presentato come l’applicazione concreta di quanto già previsto dal Countering CCP Drones Act. L’accusa, nemmeno troppo velata, è sempre la stessa: vulnerabilità sistemiche, rischio di spionaggio, possibilità di interferenze sulle infrastrutture critiche.
Brendan Carr, presidente della FCC e da tempo su posizioni molto dure verso la tecnologia cinese, non ha mai fatto mistero della sua linea. Per lui, le reti e i sistemi che volano sopra città, porti, centrali e grandi eventi non possono dipendere da fornitori considerati “avversari strategici”.
Cosa cambia davvero, al di là degli annunci
Qui però viene la parte concreta, quella che interessa aziende e operatori.
La FCC ha di fatto bloccato il rilascio di nuovi FCC ID, un passaggio obbligatorio per qualsiasi dispositivo che utilizzi comunicazioni radio negli Stati Uniti. Senza quell’autorizzazione, nuovi modelli DJI o Autel non possono essere legalmente venduti sul mercato americano. Fine.
E non si parla solo del drone “finito”. La stretta riguarda anche componenti chiave: controller di volo, batterie intelligenti, motori, sistemi di navigazione. Un dettaglio tutt’altro che secondario, perché colpisce anche molte startup statunitensi che assemblano droni in casa, ma si affidano a componenti cinesi per restare competitive sui prezzi.
Sulla carta esistono delle deroghe. In pratica, sono pochissime. Solo il Dipartimento della Difesa o quello per la Sicurezza Interna possono concederle, caso per caso, dopo verifiche approfondite. Senza quel via libera, la porta resta chiusa.
Il problema che nessuno dice: i “first responders”
C’è poi un elefante nella stanza. Negli Stati Uniti, oltre il 90% dei droni utilizzati da polizia e vigili del fuoco è DJI. Oggi possono continuare a volare, sì. Ma domani?
Il vero nodo è il medio periodo: ricambi, aggiornamenti, sostituzione delle flotte. Senza accesso a nuovi modelli e con una filiera sotto pressione, molte agenzie locali rischiano di trovarsi con strumenti sempre meno adeguati.
Il programma Blue UAS, pensato per sostenere i produttori nazionali, esiste da tempo. Ma la realtà è che le alternative americane faticano ancora a reggere il confronto con i colossi cinesi su costi, affidabilità e semplicità d’uso. Almeno per ora.
Una strategia che guarda al 2026 e oltre
Il tempismo non è casuale. Tra Coppa del Mondo 2026 e Olimpiadi di Los Angeles 2028, gli Stati Uniti stanno accelerando su una dottrina che qualcuno a Washington chiama già Drone Dominance. L’obiettivo è chiaro: controllo totale della tecnologia che vola sopra il territorio nazionale.
Il problema è che la sovranità tecnologica, oggi, è più un obiettivo politico che una realtà industriale pienamente consolidata.
Una cosa però è certa: gli Stati Uniti hanno bloccato le vendite di DJI e Autel. E le onde d’urto di questa decisione si faranno sentire ben oltre i confini americani.







