Los Angeles – Il film Chinatown non è una pellicola, è una cicatrice infetta che non smette di sanguinare nemmeno dopo cinquant’anni. Ci hanno raccontato balle per decenni. Ci hanno detto che il cinema serve a sognare, a evadere, a vedere i buoni che prendono a calci i cattivi mentre partono i titoli di coda. Tutte sciocchezze. Roman Polanski nel 1974 ha preso queste certezze e le ha buttate nel cesso, tirando pure l’acqua.
In questo dannato capolavoro, non c’è spazio per gli eroi. C’è solo un investigatore privato, Jake Gittes (quel mostro sacro di Jack Nicholson), che crede di essere furbo. Crede di sapere come gira il mondo. Povero illuso.
Film Chinatown: Una discesa all’inferno senza biglietto di ritorno
La trama? Sembra la solita roba da quattro soldi. Un marito cornuto, una moglie misteriosa, un investigatore che scatta foto. Routine. Invece no. È una trappola. Appena gratti la superficie di questa storia, esce fuori il pus. Il film Chinatown è un labirinto di specchi rotti dove ti tagli solo a guardarti.
Polanski prende il classico “Noir” americano e lo sventra. Non c’è la femme fatale che ti frega per soldi. C’è Evelyn Mulwray (Faye Dunaway), una donna che è un puzzle di dolore, vittima e carnefice, incastrata in una ragnatela tessuta dal padre. E che padre. Noah Cross. John Huston ci regala il cattivo più viscido della storia. Uno che ti guarda negli occhi e ti dice che se possiedi l’acqua, possiedi il futuro. E ha ragione lui, maledizione. Ha ragione lui perché nel mondo reale, quello fuori dalla sala, i bastardi vincono. Sempre.
La corruzione qui non è un incidente di percorso. È il sistema operativo della città. L’acqua che dovrebbe dare vita a Los Angeles serve solo a ingrassare i portafogli di chi comanda. Vi ricorda qualcosa? Dovrebbe. È lo schifo che vediamo ogni giorno al telegiornale, solo che qui è girato con una classe da vendere.
Pipì, urla e capelli strappati: il set era un manicomio
Pensate che il dramma fosse solo nel copione? Macché. Dietro le quinte volavano gli stracci. Polanski e la Dunaway si odiavano. Roba da matti. Lei, perfezionista maniacale, voleva capire le motivazioni profonde del personaggio. Lui, dittatore polacco con la delicatezza di un carrarmato, voleva solo che lei recitasse e basta.
Si racconta di tutto. In una scena, un capello della Dunaway rifletteva la luce e rovinava l’inquadratura. Polanski non ci ha pensato due volte: si è avvicinato e glielo ha strappato via dalla testa. Così, a secco. Lei ha urlato come un’aquila. E la storia della pipì? Leggenda o verità, si dice che Polanski non la facesse andare in bagno. Risultato? Lei avrebbe riempito un bicchiere e glielo avrebbe tirato addosso. Schifo? Forse. Ma è da questo veleno, da questo odio puro che è nata la tensione elettrica che vedi sullo schermo. Non stavano recitando, si stavano scannando. E noi godiamo.
La giustizia è morta, viva i soldi (e l’incesto)
Arriviamo al sodo. Il finale. Quel maledetto finale che ti lascia con l’amaro in bocca per settimane. Gittes capisce tutto. Capisce l’incesto, capisce che Evelyn è madre e sorella della ragazza, capisce che Noah Cross è il diavolo in terra. E cosa succede? Niente.
La polizia arriva, Evelyn muore con un proiettile in testa, e il vecchio viscido si porta via la nipote/figlia. Il male trionfa. Gittes resta lì, inebetito, con la faccia di uno che ha appena visto l’abisso e l’abisso gli ha riso in faccia.
«Lascia perdere, Jake, è Chinatown». Questa frase è una condanna a morte per la nostra coscienza. Significa che ci sono posti, fisici o mentali, dove la logica non conta, dove la legge non arriva, dove i soldi comprano pure l’anima. Polanski ci sbatte in faccia la realtà più cruda: la verità non serve a niente se non hai il potere per farla valere.
È un film cinico? Sì. È deprimente? Da morire. Ma è vero. È un urlo disperato contro un mondo dove i valori si vendono al chilo e le anime si bruciano per interesse. Gittes si allontana nella nebbia, sconfitto non perché debole, ma perché il gioco era truccato fin dall’inizio. E noi restiamo lì, a guardare i titoli di coda, sentendoci un po’ più sporchi, un po’ più consapevoli, e terribilmente incazzati.







